shama'u u shadu


ovvero, in accadico, il cielo e le montagne. Un giorno, facendosi largo tra cadaveri, carri rovesciati, lance spezzate, un re risalì la fiancata di un crepaccio all'imbocco di una valle, facendo cenno ai suoi generali che se ne stessero per i fatti loro. E camminò, con l'elmo tra le braccia, come un neonato.

Forse tutto aveva un senso. Il centro, la periferia - il bordo. La tribù che avevano sconfitto non sapeva neppure parlare. Non conoscevano nessuno. Dovevano essere alla fine del mondo. E di là dal costone di roccia, lo strapiombo si sarebbe aperto con uno sbadiglio negli spazi eterni.

Il sole, col suo volto indagatore, calando dall'altra parte della terra, si sarebbe voltato e l'avrebbe guardato con dispetto. Tutto finiva lì.

Ma quando risalì e si sporse sul precipizio, vide una piana di polvere ed erba, e montagne di cedro e bosso, e il cielo profondo che fuggiva giù dall'orizzonte. Nulla finiva - nulla. Oltre le montagne lampeggiava un blu piatto e remoto. Nel vortice di nubi che si innalzava sopra di lui, il re fissò gli occhi stremati, e vide il dio - il dio, che danzando nascosto dietro una nube, col mantello bianchiccio sfilacciato, gli sorrideva, lo derideva, e saltando tornava nell'Essere. L'Impero non sarebbe mai arrivato alla fine del mondo. Fulminato dal dio, il re fuggì, e andò a morire combattendo contro un'altra oscura tribù su un altopiano maledetto, troppo distante.

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