Purificazione

Ho lasciato per un paio di giorni la mia casa in campagna, per un rito di purificazione. C'illudiamo che la nostra vita ce la faccia passare liscia. Invece vedo ancora, tra i sogni ed i lampi notturni, la mia città di quand'ero diverso, sulla pianura abbacinata, tra i due fiumi. E le sue fondamenta mi pesano sul torace. No, no, non posso. Devo andare.



Ho chiuso casa, ho avvertito le mie figlie, sono andato in stazione. Per strada ogni tanto si vedono i ragazzini che spingono per giocare le carcasse delle automobili, a secco da decenni. I biglietti per il treno li ho pagati la metà dichiarando le mie condizioni di salute: ho portato la peste dentro me stesso, è una macchia sulla mia pelle - e devo strapparmela via. Le mie figlie hanno insistito per accompagnarmi: al massimo, quando saremo arrivati al santuario, se ne andranno in giro per la foresta a curiosare.

Il treno corre in silenzio per le colline, ed è quasi vuoto. Le mie figlie se ne stanno zitte nei sedili davanti a me, e fissano preoccupate la macchia nera che si allarga per le mie vene che da tempo non sembravano più vene. La stanchezza peggiora; la mia antica città svetta lassù, nel cielo, e le sue fondamenta mi schiacciano gli occhi, e i due fiumi scaricano su di me, non nel mare, la loro voragine di sangue, e quel soldato che affogai nel canneto. I miei occhi si fanno due fessure. Sulla collina più alta sta il santuario dove verrò purificato.


Le mie figlie scendono dal treno, evitano la pensilina, si disperdono nella foresta, ognuna in una sua direzione. Non mi riguarda, devo salire. Il sacerdote, dalla vetta del colle, mi ha visto e mi chiama; sulla cima, dove arrivo facendomi largo nel sottobosco, non c'è che una piccola ara, una catasta di legno, e in mezzo un blocco di marmo rettangolare. Il sacerdote brucia sull'ara pizzichi di uno strano composto, per ravvivare il fuoco; e mi invita a sdraiarmi sul blocco di marmo. Il cielo si è coperto all'improvviso. Non si scompone, questo sacerdote, nel vedere un vecchio dinosauro malato, con la vela dorsale annerita dalla macchia che mi sta straziando le vene, e mi acceca ogni secondo che passa. Pare comprendere. Mi fa accomodare. Tocca la macchia, ne calcola l'intensità, e poi appicca il fuoco alla catasta di legno.

Per i successivi minuti, brucio vivo. Il fuoco comincia a scartavetrarmi la pelle, gonfia e incenerisce le vene, attacca il nero che c'è in esse. La macchia reagisce - si espande - tenta di spezzarmi in due - non ci riesce; si tramuta in liquido nero, svapora via dalla mia pelle. La mia vela dorsale si dispiega ai venti, quando per il dolore terrificante della fiamma mi capovolgo e inarco il dorso, ed agito gli artigli consumati, e non spaventarti, sacerdote che mi purifichi, io ho sgozzato, quando ero laggiù tra i due fiumi, e nessuno sa chi sono, lo sappiamo tu e io, ma io sono un povero dinosauro che non sa di essere estinto, o spera che nessuno se ne accorga.

Il fuoco si spegne da solo, morendo piano; non c'è più nero in me. Scendo dal blocco di marmo arroventato e intorno a me la giornata poco nuvolosa di luglio pare gelida. Il sacerdote fa un cenno di saluto e io ridiscendo la collina, mi tuffo nella foresta, prendo per mano le mie figlie, usciamo dal cerchio di tronchi e aspettiamo il treno.

E quando le porte del vagone si aprono, Renoppia mi prende il braccio, e Calloandra l'altro, e aiutano il mio declino a salire verso i nostri sedili. Mentre il treno corre, loro si preoccupano, e io sorrido, perché sono stato purificato, anche stavolta.

Commenti

Anonimo ha detto…
Questo sembra un sogno, non fosse che finisce bene.

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