Una storia

Tempo fa, ho inoltrato una domanda di trasferimento in un'altra città per motivi di lavoro. Non ho rivelato il motivo vero della mia richiesta: tutti avranno probabilmente pensato che cercassi possibilità economiche o di carriera; in realtà, era la città in sé che mi attirava.

Un luogo – devo dire – incantevole. Circondato da basse mura, proprio in cima ad una collina inondata di sole e inverdita di foreste e stradicciole ripidissime. Per arrivarci, a piedi (e non c'era altro modo), credo di averci messo settimane intere. Quando, finalmente, sono riuscito ad entrare dalla Porta della Testa, avrei stappato volentieri una bottiglia di spumante, se solo bevessi.

La popolazione sembrava cordiale, anche se se ne stava un po' per i fatti suoi – e giustamente, perché vivevano lì ormai da anni, e io ero l'ultimo arrivato; per giunta, provenivo da regioni molto lontane. Gli abitanti (non moltissimi, in verità), vivevano in un condominio ampio circondato da un parco, proprio vicino al centro della città; ognuno aveva il suo appartamento e il suo balcone, e le mattine di domenica li vedevi che uscivano alla finestra e chiacchieravano e ridevano rumorosamente. Gli altri edifici cittadini erano perlopiù sfitti, o venivano abitati per pochi mesi, fino ad un altro trasferimento. Un pianista, una storica e una veterinaria vivevano ciascuno nella sua villetta personale, nei sobborghi di lusso, vicino alla Porta Cardiaca; mi fu detto che questo privilegio era dovuto a particolari affinità con l'Amministrazione Centrale. Dovevano esserci in realtà tutta una fitta rete di privilegi, ma non mi sono mai curato particolarmente di osservarli. Data la benevolenza accordatami dall'Amministrazione Centrale, mi fu concessa una casa proprio nel centro storico, dove stava la Fossa.

La Fossa era uno dei motivi del mio interesse. Non ho ancora detto di cosa mi occupo. Il nome ufficiale è impronunciabile – ed è un lavoro in effetti molto raro, uno di quelli che si fanno perché si ha lo sbatto di farli, pieni di incertezze e di compromessi, e con pochi guadagni. Io estraggo dalle Fosse (le cavità naturali presenti al centro delle città) materiali sconosciuti per analizzarli; tento di ricavarne prodotti finiti, come Gioia, Serenità, Senso, che poi distribuisco alla città, a me stesso e a chiunque desideri beneficiarne. Sulle pareti delle Fosse, coltivo Passioni, Interessi, Confidenze; e ultimamente, anche Condivisioni (cioè, scrivo sulle pareti). E' un lavoro, come ho detto, molto faticoso, ma dà le sue soddisfazioni. Oltretutto, c'è sempre il gusto del mistero. Voi capite, nessuno riesce mai a scorgere il fondo delle Fosse, e sicuramente non arriva mai a toccarlo; più va in profondità, più può dire di aver lavorato bene. La mia teoria (che in genere non confido ai miei superiori) è che la Fossa sia un organismo vivente in sé e per sé, e non – come generalmente si ritiene – un buco scavato dall'acido della Solitudine, inattingibile e morto.

Cominciando a lavorare, credo di essere stato molto felice. Insomma, ti svegli al mattino e lei è lì, che respira piano; vai a dormire, e lei luccica d'oro e di ambra nella notte nera. Par quasi che t'intenda (anche se non parla). Mi calavo, senza guanti e senza scarpe, roccia dopo roccia, verso il fondo, sempre più caldo e sempre più ammantato di fumo; cieco, mandavo avanti le mani, reggendomi alla parete per non cadere, senza respirare, e poi tornavo su. Le Fosse ci mettono un po' ad accettarti: il fumo è la loro difesa. Il mio orto andava discretamente bene, e anche l'estrazione di materiali; se non che, invece di un raccolto regolare, ogni giorno ottenevo qualcosa di diverso da ciò che mi aspettavo – segno inequivocabile che la Fossa in cui mi ero andato a mettere era, come dire... umorale. Chiedevo, di tanto in tanto, consigli per questi problemi agli abitanti della città: ma, al di là della puntualità dei loro interventi, mi rendevo conto che loro accettavano l'umoralità della Fossa, e le volevano bene, con molta più serenità di quanto non facessi io, che – forse per la vicinanza – non riuscivo ad accettare del tutto risultati parziali, o concessi tanto per.

Ecco, un giorno, mentre ero molto in fondo, mi sono accorto che sopra e sotto di me c'erano delle membrane, cresciute non si sa come, in pochi secondi. Motivo in più per credere che le Fosse siano vive, ma non ho avuto tempo di speculare ulteriormente, perché dal fondo rovente sotto di me cominciò a salire una nube rossa.

Forzando le membrane, riuscii ad uscire allo scoperto, ma la cosa non finì lì. La nube salì e salì e salì, uscì all'aria, e mi investì con tutta la sua forza. Dai balconi del condominio, gli abitanti mi gridavano che era una cosa del tutto normale, che se stavo buono e non calcavo troppo la mano, non sarei rimasto ucciso. La nube scioglieva la mia pelle, mandava in fiamme le mie labbra, faceva esplodere uno dopo l'altro i minuscoli capillari dei miei occhi. E continuavano a ripetere che dovevo allontanarmi un po', che non era niente, che succedeva, e che dovevo esser forte e pensare alla mia vita.

Così, ho raccattato alla bell'e meglio la mia roba, lasciando lì molte cose, e sono fuggito. In casa, non potevo più stare – la nube aveva invaso tutto ciò in cui abitavo – e così ho abbandonato la città, e mi sono rifugiato sulla vetta di una collina poco distante, dove non c'era niente, se non la foresta, il cielo, ed io – raggomitolato ai piedi di un tronco.

Tutto sommato, credo di essere ancora nelle grazie dell'Amministrazione Centrale. Vedo da qui, dove ora sono, che nel condominio si sta arredando un nuovo appartamento: spero sia per me, anche se con questa città non puoi mai essere sicuro di niente. Ma in quell'appartamento ancora non posso abitarci. 

Sono tuttora immerso nel mio esilio; sembro in fiamme; ogni parte del mio corpo emana un fiotto di fumo grasso, e di scintille. Come un motore esploso, che sfoga la benzina e la rabbia all'aria fredda della notte; così io corro, ogni giorno, ogni notte, per disperdere il fumo nei meandri della foresta. A volte si dirada per qualche ora, e io vedo, e respiro; a volte si ispessisce, e io vivo lo stesso, ma vivo da cieco – vivo da morto. Piano piano, la benzina finisce, la rabbia si riposa; il disco del Sole, il piatto della Luna, sono gli occhi della Libertà che mi guarda e che si avvicina lentamente. La pace, la pace mi chiama nelle sue acque senza fine.

Guardo, di lontano, la città; ma non provo più rabbia di quanto non provi vergogna. Il fumo mi rende ridicolo davanti a tutta la terra: guardami, Signore, perché sto diventando spregevole ai tuoi occhi. Guardami, perché non posso godere di ciò che ho secondo le leggi della giustizia e della natura, e costruisco torri di dolore senza fondamenta, che crolleranno un giorno, rivelando la paglia delle loro pareti, e la mia piccolezza. Guardami, e toglimi questo fumo, e ridammi la mia forma, la mia figura; finché sarò indegno di quell'appartamento, io starò qui, ad amareggiare l'Amministrazione per un dolore che non ha provocato, e a far schiumare di voglia le Furie che mi volano attorno.

Commenti

Babs ha detto…
...mi ricorda un po' la storia degli unicorni di "La fine del mondo e il paese delle meraviglie" di Murakami. Mai letto?

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