Parliamone

Secondo me, mi avete scambiato per qualcun altro.

Non penso di farmi così tante complicazioni come voi dite.

Per esempio, non ho idea di cosa siano greco, papiri, filologia, storia. So molte cose, ma non certo quelle. Non chiedetemi di ricordarmi le facce o i fatti di animali morti da tempo. Questo nella vita non mi serve. Distinguo tra quindici tipi di piante; so individuare quelle velenose, e quelle buone; so in quale stagione si mangia il ginkgo; riconosco la forma dei licopodi anche nella semioscurità; so avvertire il profumo di un equiseto a tre chilometri di distanza, e so anche che significa acqua. Non ricordo granché nemmeno del mio passato; sarò nato ad un certo punto, mamma c'è stata per quel po' che le è durato l'istinto - e poi via, cavarsela da solo.

Non so cosa sia cantare. Coi miei simili c'intendiamo a sibili e sbuffi. Quanto alla musica, se sento una pietra che rotola, è un assassino, non un piacere, e devo mugghiare, sbattere i piedi, agitare gli artigli – non applaudire, no.



Dite che ho gli arti anteriori incapaci di pronazione, e quindi sono un bipede obbligato? Ma questo me lo dite voi, io so solo che se provo a mettermi a quattro zampe mi fa un male terribile la schiena, non mi riesce di appoggiare le palme perché non mi viene il movimento giusto, e mal che vada ruzzolo a terra. Potete provare a spiegarmi il motivo, ma non lo ricorderò.

Angosce? Ma no, cioè... quando ci sono ci sono, e se se ne vanno, vuol dire che me la sono cavata. Prima o poi ne verranno altre, e poi un giorno non ne avrò più, per sempre. Quando vado in giro per i tappeti di felci in pianura, vicino al fiume, non è che pensi all'angoscia. Penso alla terra, all'acqua, alla felce che mi farà tirare a sera anche stavolta.

Amici? Il concetto è troppo complesso per meritare un'indagine. Sto insieme con i miei simili, perché ci sono, come fossero i sassi in una pianura. Uno cammina e sta attento a non calpestarli, o inciampa e si fa male.



Odio? Altra parolona. Se mi minacci, chiunque tu sia, avrai i miei artigli. Due sberle, ti stacco la faccia, siamo tutti contenti e io mi dimentico in cinque minuti di tutto. Altrimenti, tu vai per la tua via, io per la mia.

Morire?

La mattina salgo sulle colline, dove fa più fresco, e mi nutro, e cammino, cammino senza fermarmi. La sera, scendo a valle, al fiume, al lago, a bere, e tutto è rosso e le ombre sono lunghe – spesso vibro un colpo d'artiglio dove non c'è che aria. La notte mi corico e dormo, in mezzo alle pietre, e sono una pietra – respiro pianissimo e non sogno mai.

Tutto questo un giorno dovrà finire. Ma io non ci penso. Non penso praticamente a niente.

Per questo dico, che mi avete confuso con qualcun altro.


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