Dalle *Ventisei settimane*. Capitolo 1
1.
Ciao Nora, tutto bene?
Sì, ti sto scrivendo una lettera. È una strana
sensazione scriverti una lettera. Cartoline a parte, saranno dieci anni che non
scrivo una lettera a qualcuno. Tra l’altro non ho niente di particolare da
dirti, anzi è una cosa molto banale: questo pomeriggio sono salito sul tetto di
casa mia.
In realtà credo che l’idea originale fosse di
andare a fare due passi in centro, non sul mio tetto. Poi però sono uscito di
casa, mi son trovato davanti le scale, e invece di andare giù sono andato su.
Su fino al decimo piano, fino alla porta di ferro arrugginito che dà sul tetto,
e che è quasi sempre aperta.
Fuori era già buio pesto. Sentivo l’odore dell’aria
e del legno fradicio. Riuscivo a distinguere, nel silenzio di fondo, rumori
piccoli e inutili come il ticchettio del mio orologio, il rombo lontano di un
aereo, il fruscio di sottane delle nuvole. Una dopo l’altra le luci dei
lampioni sotto di me si sono accese, e la città ha preso a somigliare ad un
cofanetto di gioielli. Mi sono ricordato di quelle fotografie di profondo
cielo, che anche se hanno i colori ritoccati si capisce che le stelle non sono
finte, son tutte lì, brillanti come fari da palcoscenico. Poi m’è saltata
all’occhio, sulla parete del condominio davanti a me, la luce della tua camera.
Purtroppo non ho ancora trovato un
sistema per dimenticarmi del fatto che abiti anche tu in via Allende come me,
proprio nel palazzo davanti al mio. A forza di guardare la tua finestra tutte
le sere, ormai la trovo alla prima occhiata. Se la luce di camera tua è accesa,
vuol dire che tu sei lì. Oddio, non per forza, forse è tua madre che rimette a
posto dei vestiti, o tuo fratello che viene a prendere qualche fumetto. Ma a
quest’ora di sera è più probabile che sia tu, conosco le tue abitudini. Magari
non sei sola. Magari lui ti è venuto a trovare e ora siete saliti in camera
mano nella mano, chiudendo la porta.
Torco il viso con una smorfia, e
torno a guardare lo spazio di dieci piani che mi divide dalla terra soffice
degli abeti. Vuoi mettere, da qui – mi son detto – che cabrata formidabile?
Certo, devo stare attento a non sbattere il naso contro il muro del condominio
quando risalgo. Non ho mai volato prima, ma se non ci provo non imparerò mai.
Ecco – quest’ultima onda di vento è talmente forte, e talmente fredda, che
sembra darmi l’ok per il decollo. Stendo le braccia e mi avvicino al bordo del
tetto.
– Ah, ma sei qui.
Mi volto.
Figurati se non era lui.
–
Ma dove cristo eri finito?
–
Ero qui.
–
Grazie, ormai. Ti ho cercato per tutto il condominio. Pensavo fossi uscito, ma
il portiere ha detto che non ti ha visto.
–
Hai chiesto al portiere…?
–
E chi se no?
–
Ma non potevi chiamarmi sul cellulare?
–
L’hai lasciato sulla scrivania. Insieme a cappotto e borsa. Con questo freddo.
Non so, per me sei cretino. Vieni, che ho fame e voglio cucinare.
Fabrizio,
questo qui che ha parlato, è mio fratello, ma tu non lo conosci molto bene
perché in casa c’è di rado. O meglio: c’è, ma è come se non ci fosse. Quando
non lavora, e io ho ospiti a casa, si chiude nel suo studio o nella sua camera
e a malapena saluta. Una volta credevo che ci portasse le ragazze, ma è pur
sempre mio fratello, e queste cose non gli riescono bene. Uno penserebbe che un
omone di ventinove anni, uguale a papà – che è notoriamente un bell’uomo – con
il naso di sua madre (io purtroppo ho preso quello della mia), questa barba
tenuta sempre a due tre giorni di crescita, e in camicia da quando ha tredici
anni – insomma, uno così non
dovrebbe essere un sociopatico come suo fratello minore. Eppure –
–
Non potresti lasciarmi qui?, gli chiedo.
–
A prenderti un accidente? Vieni a casa.
–
Sono a casa. Questo è il nostro condominio.
–
Vieni in appartamento, allora. Forza.
E
mi afferra il braccio, sempre quello sinistro, e sempre poco sopra il gomito,
come faceva quando ero piccolo. A parte il fatto che ha sei anni più di me, è
sempre stato più robusto, e appena inizia a tirare mi arrendo. Attraversiamo la
porta di ferro, e scendiamo verso l’ottavo piano, nella penombra immensa delle
scale. Non mi ero reso conto di quanto fosse freddo fuori.
–
Cos’hai? Brividi?
–
No.
–
Stai tremando. Hai i brividi!
–
Ma no.
–
Mi spieghi che ci facevi là sul tetto?
–
Guardavo.
–
Cosa?
–
Il paesaggio.
–
Eh?
Fabrizio
infila la chiave nel cancello davanti alla porta, e come ogni volta fa una
fatica infernale a girarla, finché non si accorge che è quella sbagliata. Lo
frega sempre la somiglianza con la chiave del cancello esterno. Lo correggo in
silenzio, indicandogli la chiave giusta con lo stesso ditino innocente, ma
assertivo, con cui da bambino gli indicavo sul bancone le caramelle che volevo.
–
Il paesaggio, ripete, incredulo.
–
Sì. A quest’ora la città vista dall’alto è molto bella.
–
Ho capito, ma mi esci senza cappotto…? Vuoi morire?
–
Mi sono dimenticato.
– Seh, vabbè. Cosa vuoi per cena?
–
Non lo so.
Eccoci
in casa. Improvvisamente mi sento meglio, anche se non smetto di tremare per
almeno dieci minuti.
–
Frittata?
–
Va bene.
–
Con le cipolle?
–
Ok.
–
Ci metto un’insalata di contorno?
–
Se ti va.
–
Puoi anche essere propositivo, sai.
–
Ma, mi va bene tutto.
Accende
la luce della cucina, e io mi siedo.
–
Com’è andata in libreria?
Mi
risponde distrattamente, dicendo che è andata bene. Tira fuori la padella dal
cassetto sotto il fornello, e poi mi pianta addosso i suoi occhi chiari, larghi
come piatti.
–
Da qualche settimana non mi sembri a posto. Qualcosa non va?
Bella
domanda. Vediamo. Ormai quasi un mese fa sono uscito e ti ho incontrata sul
selciato che dà sull’ingresso di casa tua, ancora fradicio dopo la nevicata.
Non eri più alta dei mucchi di neve abbattuti sulla tua porta. Credevo che
volessi, non so, spiegare perché ultimamente le cose andavano così male e
siccome sono un bravo soldatino, mi preparavo ad ascoltare cosa avrei dovuto
fare per andarti bene. E invece niente, hai detto che stavi meglio da sola.
Sempre da bravo soldatino, non ho protestato e sono tornato a casa. Poi potrei cominciare
con un lungo elenco, che include piangere sotto l’acqua della doccia, uscire da
una macchina e cominciare a piangere, rompere in singhiozzi appena spengo la
luce in camera, svegliarsi all’alba e non voler accettare che sono ancora lì,
nel mondo, in quel mondo dove ci sei anche tu e il tizio con cui stai ora –mi
fermo qui, per rispetto alla decenza. Sì,
qualcosa che non va c’è di sicuro; ma
dato che Fabrizio di sé stesso mi dice poco o niente, non vedo perché dovrei
rendergli il favore. Oltretutto non sono dell’umore per parlare. Stavo per fare
il più grande decollo dei miei ventitré anni e lui me lo ha guastato sul più
bello.
Dopo
cena, mi è stato ordinato di filare in camera a studiare, mentre Fabri, dopo il
telegiornale, si guardava Via col vento. In un’altra occasione mi
avrebbe fatto rimanere, ma stasera, non so perché, gli è presa male.
–
Perché non posso restare…?
–
Quando ti laurei?
–
Luglio.
–
Vai a studiare.
–
Fabri, ma fatti un po’ i cazzi tuoi.
–
Con tutto il tempo che perdi a fantasticare, bisogna che qualcuno ti tenga
d’occhio. Comincia anche a pensare a cosa fare dopo.
–
Non mi sembra che siamo messi così male.
–
Che discorsi. Bisogna comunque che ti svegli un po’. Il ministro ha detto che a
settembre potrebbe aprire il TFA.
Insiste
ancora con questa storia del TFA. Ma ci vada lui a fare il prof di liceo. Se
gli piacciono tanto i ragazzini, che se li smazzi lui, ho pensato, mentre
sgattaiolavo via dalla cucina. Io
prenderò la mia laurea strafica in lettere classiche – sissignore, lettere classiche, sottolineato tre
volte – e andrò a fare ricerca. Il mio destino sta scritto altrove.
E
insomma, alla fine mi sono messo alla scrivania, ho tirato fuori un foglio
dalla carpetta nello zaino, e dopo un’ora sono ancora qui a scriverti.
Questa
lettera che ti scrivo, e probabilmente anche quelle che ti scriverò in futuro,
tu non le leggerai mai. Sono dirette a te; ma non te le manderò, nemmeno
anonime. Il motivo è semplice. Mentre per me è facile mettermi in quarantena da
quella te che vive a due passi da casa mia, e quindi: non chiamarti, non
cercarti, non vederti, non sentirti, non commentare il tuo blog, non guardare
la tua pagina facebook né quella dei tuoi amici – non è però altrettanto
facile disfarmi di quella te che, quando mi hai lasciato, è rimasta nella mia
testa.
Questa
tizia è una clandestina e io qui non ce la voglio. L’unica cosa che posso fare,
siccome non vuole andarsene e al momento non la riesco a mandar via, è tenerla
d’occhio. Impedirle di fare disastri. E così le scrivo. Prima o poi smetterà di
occupare tutto questo spazio utile nel mio cervello. O forse lungo la strada mi
verrà in mente un modo per scacciarla io.
Quanto
durerà questa mia quarantena? Butto lì una cifra: sei mesi. Ventisei settimane.
Fino a metà luglio, fino alla mia laurea. Non è male come idea. Un periodo
lungo, durante il quale può succedermi di tutto, anche di dimenticarti
(magari). Certo, se ti scrivo, tu dirai, come penso di dimenticarti? Obiezione
sensata, se tu fossi una persona. Ma cosa
sei tu? Nient’altro che una mia fantasia: e le fantasie muoiono, come muoiono i
bambini dopo gli undici anni. Ah, ma ecco di nuovo questo brutto vizio che ho,
di mettere le date di scadenza. Ventisei settimane. E poi cosa faccio, il
quindici di luglio? Sollevo la cornetta e ti chiamo? Ma che ne so. Ci penserò
quando sarà. Ho perso non so quanto tempo per questa faccenda e bisogna che mi
occupi di altro. Ho detto che mi laureo a luglio, ma non è che basta dirlo
perché succeda.
Dalla
mia finestra si vedono i rami di un albero, credo un tiglio. Qualche settimana
fa, prima della nevicata, ha fatto molto caldo, e all’albero sono saltate fuori
le gemme. Chiaramente poi è arrivata la neve e le ha stroncate tutte. È triste
vedere i germogli morti in fila sul ramo, in attesa di niente. Ma questa è
stata l’ultima strage. La primavera non manca un colpo dall’ultima glaciazione,
e anche questo inverno prima o poi finirà. Ops, ecco un altro vizio che ho – vedo cose normali e le trasformo in stronzate.
Invece sarebbe il caso di mettersi un po’ sui libri prima di andare a nanna. Ho
la Ridolfi tra nemmeno una settimana e devo ancora cominciare a leggere il
quarto di Ovidio. Alla prossima, piccola. Un bacio da
Francesco.
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