Da *Ox*, cap. 18


18 || Un'altra visita.

|| 07:38-16:45 ||

Venne la Befana, e Martina tornò a casa. Si ritrovò, appesa sul fornello, una calza piena di dolciumi, e sul fondo un po' di carbone zuccherino.
― Ma questa?
― La Befana.
― Oh, Eugenia.
Eugenia gongolò e pensò che avere una figlia non sarebbe stato poi così male. La piccola bastarda le era mancata, mentre era via.
― E mi hai preso anche le gelatine di frutta! Ma la cioccolata?
― Sei allergica.
― Io? No.
― Sì. Ti ho fatto i test. Le bolle venivano da lì.
― E non potevi dirmelo prima di Natale...?
― Non lo sapevo fino a ieri, quando ho guardato i risultati. Sai, ero in vacanza anche io. A proposito, occhio coi dolci. Hai una brutta familiarità col diabete.
­ Come lo sai?
Ho analizzato il tuo genoma.
Perché l'hai fatto?
― Ho trovato un tuo capello nello scarico della doccia.
Non eri in vacanza…?
Ma questo per me è una vacanza. Mi rilassa.
Eugenia, tu mi fai tanta, tanta paura.
― Cosa vuoi mai. Passate delle buone feste?
― Ma insomma.
E, calza a mano, Martina lasciò il trolley e si abbatté sulla poltrona.
― Mamma sembra che stia migliorando, ma non l'hanno dimessa. Comunque i medici dicono bene. Papà è rimasto con lei. Forse a maggio tornano.
― Tu come ti senti?
― Appesantita. Sono stata sola per due settimane. I miei non riescono più a fare i genitori. Mamma è troppo preoccupata di lasciarmi sola, e papà non è in grado di smettere di fissarla, come se fissandola la facesse diventare più grassa.
― Quindi sei contenta di tornare.
― Ma sì, che vuoi. Tanto non posso farci granché. I miei insistono che finisca l'anno e me ne stia qui. Ah, ti salutano.
― Ricambia, quando li senti. Ti va di cenare?
― Non ho molta fame.
― Facciamo tortellini alla panna, e poi letto?
― E una doccia in mezzo. Sì, grazie.
Eugenia se ne andò in cucina. Mentre tirava fuori dal frigo la panna l'orologio di Piazza della Sera batté le quattro e mezza, e le saracinesche si chiusero. La notte era cominciata. Lo scroscio della doccia l'avvisò che Martina aveva deciso di invertire l'ordine delle cose da fare.

[...]

― Fra cinque minuti i tortellini sono in tavola, annunciò.
― Va bene. Grazie.
E fu in quel momento che suonò il campanello.
― Eugenia, chiamò Martina dal bagno.
― Eh.
― Non è già notte?
― Da almeno venti minuti.
Perché ha suonato il campanello?
Eugenia sorrise.
― Ox viene a farci visita. L'ho invitato per un tè.
― Eugenia, ti prego. La faccenda è seria.
Il campanello suonò di nuovo.
― E insiste! Non può essere un contatto.
― Vado io.
― Eugenia, ho paura!
― Ma smettila, Mart. Non è il campanello del portone, è quello della nostra porta. Sarà un povero stronzo fuggito nel condominio prima della notte, e che adesso, non potendo più uscire, chiede un letto caldo, o che lo facciano passare dai cunicoli.
― E lo chiede a noi, al terzo piano?
Eugenia sentì questa risposta, in realtà molto sensata, con un orecchio, e con l'altro ascoltò i propri tacchi andare verso la porta. La aprì senza guardare. Ebbe una sorpresa, forse la più brutta da quando era a Vallebuia.
Fuori dalla porta stava un ragazzo della sua età, magrissimo, con i capelli lunghi e biondi, l'aria smorta, e un lungo cappotto liso che lo copriva malamente dalla neve che fuori cadeva da due giorni. La guardò e sorrise.
― Eugenia! Meno male.
Eugenia rimase con gli occhi sbarrati.
― Adriano. Ciao.
E rimasero, zitti a guardarsi.
― Eugenia, non fai entrare il nostro ospite?, chiese Martina dal bagno, mentre cominciava ad asciugarsi i capelli con il phon.
― No, rispose Eugenia.
Adriano si sforzò di sorridere.
― Sei divertente. Fammi entrare.
Eugenia, che odiava non essere presa sul serio, non si mosse.
― No.
― Dai.
― Entri quando pare a me.
― E quando vuoi che entri? Domani? Dai, fammi entrare.
Eugenia, che non poteva lasciarlo fuori, si ritirò, facendo un passo all'indietro. Adriano fece per entrare. Quando fu al punto giusto, con un colpo secco Eugenia gli chiuse la porta in faccia, dandogli una botta mostruosa sul naso, che Adriano aveva lungo e a becco. Un urlo disperato segnò l'atterraggio del suo culo a terra.
Martina, che aveva il phon acceso e pensava a tutt'altro, non sentì niente.
― Farti entrare un cazzo, Adriano. Questa è casa mia, e comando io. Va bene?
Adriano, ancora culo a terra, si toccò il naso, e con un fazzoletto cercò di tappare in sangue che usciva a fiotti dalla narice destra.
― Eugenia, vaffanculo. Dammi una mano.
― Prima chiedi scusa.
― Scusa di che?
― Di avermi considerato una bambina isterica. Chiedi scusa.
― Scusa.
― Bravo.
E gli porse la mano, facendolo poi entrare nel salotto.
Seguì una serata non poco imbarazzante. Martina uscì dal bagno già in pigiama ed a capelli asciutti, solo per scoprire che avevano un ospite a cena. Sedeva silenzioso, leggermente ingobbito con la schiena, ad un angolo del tavolo, e fissava il suo piatto vuoto mentre Eugenia finiva di cucinare e serviva in tavola.
― Piacere, Martina.
― Adriano.
― Cena con noi?
E si voltò verso Eugenia, che la guardò sfinita.
― Sì, cena con noi. Non vedo dove altro sistemarlo.
Martina si sedette.
― Lei non è di Vallebuia?
Adriano ebbe un sussulto.
― No.
― Capisco. Immagino che non sapesse nulla di cosa succede qui la notte.
― Perché, cosa succede?
Martina sgranò gli occhi. Eugenia servì in tavola e si sedette.
― Devo avere fatto scattare un allarme senza volerlo. Ero qui per vedere Eugenia, e sono entrato nel portone d'ingresso. Ma pochi minuti dopo si è chiuso con le sbarre, da solo. Anche le finestre sono state chiuse, e mi sono ritrovato a vagare nel buio. Ho cercato le scale a tentoni, e sono salito fino al vostro piano. Ma se disturbo, dopo cena posso tornare al mio ostello.
― Ma cosa vuoi tornare, cretino, sibilò Eugenia. ― Tornerai domani. Se adesso metti un dito fuori, nella notte, non arriverai al minuto successivo.
― Ma di che stai parlando?
Eugenia lo guardò.
― Eugenia, prese a dire Martina ― se il tuo amico vuole tornare a casa dopo cena, può sempre usare i tunnel.
― Lascia stare, rispose Eugenia, infilando la forchetta nel primo tortellino, ― ho già guardato. Con questa influenza che gira, l'ospedale ha dichiarato il blocco dei tunnel perché passino le ambulanze. E poi ha detto che sta in un ostello, cioè fuori dal centro. E i tunnel non arrivano fin là.
― No, in effetti no.
― Buon appetito, mormorò Adriano, e cominciò a mangiare.
Arrivati al secondo, mentre serviva l'insalata, Eugenia ruppe l'orrido silenzio che era caduto sulla cena.
― Vuoi gentilmente spiegarmi che ci fai qui, Adriano?
Con un bagliore sinistro sul fondo degli occhi, Adriano prese a dire.
― Ho passato le feste a Montalto, dai miei cugini, come al solito, e stavolta, per tornare, ho allungato per le Marche, perché avevo voglia di farmi un giretto. Giravo in macchina per Vallebuia. Ti ho vista, ho fermato la macchina, ti ho seguita e ho visto dove abitavi. Ho passato la notte in un ostello e ora eccomi qua.
Le due donne, allibite, si guardarono per un mezzo secondo.
― Ma questo dice sul serio?, chiese Martina.
― Sì, temo di sì, rispose Eugenia.
― Lo sai che decido in fretta, replicò Adriano, fingendosi offeso.
― Lo so fin troppo bene. Hai rischiato grosso. Non sapevi niente di Vallebuia.
― Cosa dovevo sapere? Ci ero venuto per la lonza coi fichi.
― Ma quella è di Jesi, esclamò Martina, affranta.
― Ok, per la gossuta.
― Quella è di Urbino.
― Insomma, Eugenia, un qualunque fottuto motivo per imbucarmi in una cittaduzza delle Marche ce lo potrò avere.
― Ma proprio in questa?
― Che ti devo dire. Poi quando ti ho vista i motivi per rimanere sono aumentati.
― Ma va'.
E gli puntò addosso il coltello.
― Tu sei sicuro, che non sapevi dove fossi andata questo agosto.
― Sicurissimo. Non l'hai detto a nessuno. Men che meno a me.
― Già. E nessuno te lo ha detto.
― Nessuno.
― Mi spieghi perché hai allungato il viaggio verso Bologna proprio qui?
― Non sapevo che fare, e la Toscana ormai l'ho vista tutta.
― Dimmi la verità, Adriano. A me non puoi dire balle.
― Volevo stare solo. Le feste coi cugini mi hanno ammazzato e a Bologna non ho nessuna voglia di tornare. Sono ancora disoccupato e mi sento uno schifo da quando mi hai lasciato. Così, mentre ero in macchina, invece di svoltare a sinistra ho svoltato a destra. Così, tanto per avere qualcosa a cui pensare che non fossi tu. Va bene?!
E la rabbia che aveva negli occhi lo accecò per un istante.
Eugenia abbassò il coltello. Ora sembrava molto più malinconica.
― Va bene. Ti conosco abbastanza per capire che dici la verità. Mi dispiace che tu abbia dovuto rivedermi.
― A me non dispiace più di tanto, ora come ora.
E le toccò le dita della mano. Eugenia le ritirò, ma senza astio.
― Io dico che un po' ti dispiace, Adriano. Se non ora, fra pochissimo. Perché tanto io di qui non me ne vado. E con te con ci torno.
― E chi ti ha chiesto niente? Io non ―
― Lo so, che lo hai pensato, Adri. Altrimenti non saresti qui. Te ne saresti tornato a Bologna chiotto chiotto, facendo finta di non avermi vista.
Il ragazzo chinò gli occhi sull'insalata.
― Ora sei ingiusta. Non gira tutto intorno a te. Ho altro da fare, nella vita, che starti a pensare, o avere nostalgia.
― Ci credo. Ma so che vuoi che io torni con te. Magari non in continuazione, ma so che ogni tanto ci pensi. Perché a volte lo penso anch'io.
Adriano parve illuminarsi: ma quando vide gli occhi di Eugenia, a far capolino sulle sue labbra fu un tenue sorriso, come una lucina nel buio.
― Ah, bè. Siamo sull'impossibile.
― Direi piuttosto sul necessario, ma in sintesi il risultato è lo stesso. Certo che mi manchi anche tu. Sarai anche cretino, ma in fondo mi stai simpatico.
Adriano la guardò.
― Eugenia, io devo sapere. Mi hai lasciato a luglio, e a fine agosto eri sparita. Sei fuggita fin qua per allontanarti da me?
Eugenia ricambiò lo sguardo, e questa volta sembrò intenerita.
― No, Adriano. Non sono fuggita da te. Non ti detesto, e non mi fai paura. Anche se devo ammettere che a due che si sono lasciati di fresco, dopo sei anni, la distanza fa bene. E più ce n'è, meglio è.
― Allora, grazie a Vallebuia.
― Grazie a Vallebuia, sì. Avrei dovuto immaginarlo, che avresti pensato ad una cattiveria nei tuoi confronti.
― Non sei sempre stata buona con me.
― No. Sono stata infelice e rabbiosa, e le persone infelici e rabbiose fanno del male a chi gli sta intorno. Ma di questo mi sono scusata tante volte.
Martina, passato l'imbarazzo dell'inizio, e ormai convinta di essere del tutto indifferente al protrarsi della conversazione, ne approfittò per servire due o tre brioches al cioccolato che aveva comprato in un bar di Ancona quella mattina. Mentre le tirava fuori dal pacchetto, prese persino a fischiettare, e nessuno se ne accorse.
― Da cosa stai scappando?
― Da qualcosa di più grande di me.
― I tuoi esperimenti?
― Qualcuno li vuole per sé.
― Fatti proteggere.
― Nessuno può farlo. Nessuno, tranne Ox.
Chi?
― Ah, bella domanda, rispose Martina.
― Mart, non a bocca piena, per favore.
― Oh insomma.
― Non posso spiegartelo facilmente. Domani mattina fatti un giro fuori e capirai che sta succedendo.
Poi si alzò.
― Stanotte puoi dormire qui, naturalmente. Domani te ne andrai. E non dirai a nessuno che mi hai vista qui, nessuno. Chiaro?
Adriano inghiottì.
― Chiarissimo.
Finirono la serata a parlare di che succedeva a Bologna, e come stavano i loro amici in comune. Una o due volte arrivò persino una risata. Ma non era tristezza, quella che li prendeva. Era piuttosto una specie di velo umido e caldo. Una strana malinconia, che non avrebbero provato con nessun altro se non tra di loro. Ciò che restava, insomma, di un amore antico, che si era addormentato in pace, senza che nessuno l'avesse molestato o stroncato, e che di sé lasciava solo l'affetto e i ricordi.
Andarono a dormire. Adriano fu sistemato nella stanza per gli ospiti. Eugenia era già addormentata da un pezzo, quando lo sentì, mentre, avvolto nel suo pigiama, lentamente le si sdraiava accanto, e le accarezzava il fianco.
― Lascia perdere, disse.
― Domani parto, rispose lui con un filo di voce.
― Lascia perdere comunque.
― Andiamo, Eugenia. Giusto per stare un po' insieme.
― Mi va bene fare due chiacchiere, ma per questo non sono pronta.
Adriano smise di accarezzarla, e si voltò sulla schiena.
― Capisco. Immagino che qui tu lo faccia anche troppo spesso.
― Non direi proprio.
Silenzio.
― La mia sensazione era esatta.
― Sì, è parecchio che non lo faccio.
― Bè ―
― E non lo farò ancora per molto tempo.
― Non ti vedi con nessuno...?
― Un professore di lettere di qui. Ha vent'anni più di me.
― Oddio. E non gliel'hai ―
― Uhm, no. Non ancora.
― Perché...?
― Bah. Non so dirti perché. Non è il momento e basta.
E aspettò un secondo.
― Non mi sento molto bene, tutto qua.
― Ma lui...?
― Per lui va bene. A parte che, insomma, qualcosa abbiamo fatto, ma sul liscio. E poi, se non gli va, si attacca al tram.
― Ma dai. Strano, da parte tua.
― Ho sentito una sfumatura sarcastica.
― Allora un po' mi conosci.
― Già, pensa.
Martina li trovò la mattina dopo, che dormivano beatamente, lui sopra le coperte, e lei sotto. Camminò piano, per non svegliarli.

Commenti

Post popolari in questo blog

Dal *Mauretania*

Un perchè

Da *Il primo viaggio*